Il Tarassaco

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Le caratteristiche di questa pianta: frugalità, spontaneità, variabilità a seconda della zona di origine, le sue proprietà curative ben note alla medicina popolare lo hanno eletto a simbolo della nostra Associazione.

Un insieme di persone che intendono operare in connessione con la natura per proteggere la biodiversità, difendere gli habitat, il paesaggio e proteggere la memoria delle tradizioni popolari e di comunità.

Il Taràssaco comune (Taraxacum officinale) è una pianta a fiore (angiosperma) appartenente alla famiglia delle Asteracee. L’epiteto specifico, officinale, ne indica le virtù medicamentose, note fin dall’antichità e sfruttate con l’utilizzo delle sue radici e foglie.

Più che con il suo nome botanico, il taraxacum è noto per i tanti appellativi popolari, in uso nelle varie regioni italiane, che ne dimostrano l’enorme diffusione e l’intreccio profondo con la tradizione popolare: dente di leone o dente di cane per la dentellatura delle foglie, soffione (l’infruttescenza), piscialletto o pisciacane per le sue proprietà diuretiche, nonnino, cicoria selvatica, cicoria asinina, grugno di porco, ingrassaporci, brusaoci, insalata di porci, orologio del pastore per via dei suoi petali si schiudono all’alba per serrarsi al tramonto, barometro del contadino: il soffione è un una sorta di meteorologo, se i semi volano anche in assenza di vento, assicurano i contadini, presto si scatenerà un temporale, lappa, missinina, girasole dei prati poiché i suoi fiori seguono il corso del sole, infine anche con lo storpiamento del nome in tarassàco.

È una pianta diffusissima dappertutto e nota per i vistosi capolini gialli (infiorescenze composte da centinaia di fiori) e i caratteristici soffioni. È frequente soprattutto in zone di pianura ma cresce anche in collina e in montagna, nei prati naturali e lungo le strade: inoltre tende a diffondersi con sorprendente rapidità nei terreni coltivati e sui terreni erbosi dei giardini. È inconfondibile soprattutto a primavera, nel momento in cui sboccia quasi contemporaneamente una miriade di capolini di colore giallo vivo, sorretti da peduncoli radicali cilindrici e vuoti internamente. Dopo la fioritura si sviluppano i caratteristici e leggiadri soffioni, composti dagli acheni maturi che terminano con pappi bianchi e setosi facilmente dispersi dal vento.

Il Tarassaco è molto prolifico. È una specie che, seppure tendenzialmente entomofila, è in grado di maturare semi vitali anche in assenza di riproduzione sessuale non a caso è diffusa in ambiente urbano. Questo fenomeno, detto apomissia, consente la formazione di embrioni senza fecondazione e dà origine ad organismi geneticamente identici alla pianta madre. Ogni pianta produce più di 5000 semi ogni anno. I semi maturi si staccano dalla pianta e, grazie alla struttura nappata viaggiano attraverso il vento e si diffondono anche a diverse centinaia di metri dalla pianta madre secondo un percorso evolutivo che ha reso la condizione dei pappi ottimale e tale da fornire la maggiore resistenza aerodinamica mantenendo contemporaneamente un volo stabile. Questo meccanismo è stato descritto in un articolo recentemente pubblicato sulla rivista Nature. I semi sono molto resistenti adattabili alla maggior parte dei terreni e non temono le basse temperature per germogliare. Inoltre rimangono vitali per oltre 9 anni, caratteristiche che fanno del Tarassaco una pianta resistente e piuttosto “invasiva”.

Nel linguaggio dei fiori il Tarassaco simboleggia la speranza e la fiducia; fin dall’antichità le popolazioni campestri erano solite esprimere un desiderio e poi soffiare sui semi della pianta. Se con un solo soffio fossero caduti tutti i semi il desiderio sarebbe diventato realtà.

Tutte le parti della pianta escluso il fiore contengono un lattice bianco (tarassicina) da cui deriva un sapore tipicamente amaro. Le foglie e soprattutto le radici hanno proprietà antiscorbutiche, aperitive, digestive, diuretiche nonché lassative. Le radici carnose si scavano in autunno e a fine inverno.

Il tarassaco è legato al mito di Teseo e del Minotauro. Siamo a Cnosso, sull’isola di Creta, nel periodo del regno di Minosse, antico sovrano i cui natali affondano nella leggenda. Proviamo a fare un piccolo riassunto: Minosse, figlio di Zeus ed Europa, sposa Pasifae, che in seguito ad un’offesa fatta ad Afrodite viene maledetta e indotta ad innamorarsi di un toro. Nasce così un figlio mostruoso, metà uomo e metà toro, il Minotauro. Minosse lo imprigiona in un labirinto fatto costruire dall’architetto Dedalo e, per sfamarlo, impone alle città sotto la sua dominazione un tributo annuale di sette fanciulle e sette giovani. Un anno, però, tra loro viene condotto il principe di Atene, Teseo, che non vuole arrendersi al tragico destino. Teseo seduce la figlia di Minosse, Arianna, e le promette di condurla in Grecia. Arianna gli dona così un lungo filo, per segnare la via per uscire dal labirinto. Leggenda vuole che Teseo mangiò per trenta giorni soltanto fiori di tarassaco, tanto da diventare così forte da riuscire ad affrontare e sconfiggere il Minotauro: il giovane riuscì infatti ad ucciderlo e a scappare dal labirinto.

Il Tarassaco nella letteratura italiana

Ma per salvarle dalla fame mi dovetti decidere anche se le condizioni non erano quelle ideali, e una mattina con celerità e decisione posai dentro ogni arnia due favi di miele che l’anno scorso (anno di grande abbondanza!) avevo preservato dalla centrifuga. Prima di introdurli tra il diaframma e la parete a levante li avevo disopercolati; ossia con una forchetta rotto gli opercoli di cera che coprono le cellette dove è riposto il miele, e quindi spruzzati di acqua tiepida con l’arnese che mia moglie usa per inumidire la biancheria prima di stirarla.
Finita l’operazione fui un po’ tranquillo: per un paio di settimane avevano da vivere anche se continuava il maltempo. Ma troppo continuò, e ancora dovetti alimentarle con sciroppo e miele.
Finalmente il tarassaco coprí con i suoi fiori gialli tutti i prati; ma una notte nevicò e quando ritornò il sole per una settimana solamente poterono raccogliere da questo fiore che per le api, da noi, rimane sempre il più produttivo e ci dà un miele colore dell’ambra e come l’ambra luminoso e vivo, dal forte sapore persistente ma non da tutti apprezzato, un miele che con il tempo diventa denso e cremoso, a volte cristallino, ed è salutare per il fegato e il sangue.

Dove andava? Quella volta corse e corse, dai lecci agli olivi ai faggi, e fu nel bosco. Si fermò ansante. Sotto di lui si distendeva un prato. Il vento basso vi muoveva un’onda, per i ciuffi fitti dell’erba, in un cangiare sfumature di verde. Volavano impalpabili piume dalle sfere di quei fiori detti soffioni. In mezzo c’era un pino isolato, irraggiungibile, con pigne oblunghe. I rampichini, rapidissimi uccelli color marrone picchiettato, si posavano sulle fronde fitte d’aghi, in punta, in posizioni sghembe, alcuni capovolti con la coda in su e il becco in basso, e beccavano bruchi e pinoli.

Alla sera, venendo a casa per i prati c’era pieno di tarassachi detti anche «soffioni». E Pamela vide che avevano perduto i piumini da una parte sola, come se qualcuno si fosse steso a terra a soffiarci sopra da una parte, o con mezza bocca soltanto. Pamela colse qualcuna di quelle mezze sfere bianche, ci soffiò su e il loro morbido spiumìo volò lontano.

Quando arrivavano i primi giorni di primavera e il sole faceva sentire delicatamente la sua tiepida carezza, le lumache si svegliavano dal letargo invernale, con un lieve sforzo dei muscoli sollevavano il guscio quel tanto che bastava a mettere fuori la testa e subito allungavano i cornini con in cima gli occhi. Allora scoprivano con gioia che il prato era coperto di erba, di piccoli fiori selvatici e, soprattutto, di saporiti dente di leone. 

Certe lumache, le più vecchie, chiamavano il prato Paese del Dente di Leone e chiamavano Casa la frondosa pianta di calicanto che ogni primavera germogliava con rinnovato vigore dalle foglie castigate dalla brina invernale. Sotto quelle fronde le lumache passavano gran parte del loro tempo, nascoste allo sguardo avido degli uccelli.